Monday 29 November 2010

Release Therapy:
libro arancione

Alessandro Cavaleri ha curato il volume,
Andrea Babich ha scritto uno dei numerosi saggi ivi contenuti.
Quindi, tecnicamente, si può comunque parlare di release therapy.

O è rosso? Io ho sempre avuto un problema, con la differenza tra rosso e arancione. Per fortuna le scritte, nero su bianco, sono in bianco e nero, così le scrivo senza questo daltonico pensiero.E che ho scritto, in questo libro? Ho scritto un saggio dal titolo: "Agli albori del marketing videoludico. Ingenuità, intuizioni e definizioni dei brand tra gli anni Settanta e Ottanta". Cosa ne so io di marketing? Praticamente niente, nel senso che non padroneggio tutte quelle parole inglesi che sono fondamentali per essere esperti, o sedicenti tali, della materia. Io mi sono sentito cialtrone già a parlare di "brand awareness", per intenderci. Ma sentirsi cialtroni è già qualcosa, insomma, è sintomo di non essere perlomeno totalmente dormienti nelle proprie convinzioni. Non proprio svegli o risvegliati, ma un pochino, ecco. A parte tutto ciò, che ci porta sulle strade del daltonismo esistenziale che non vogliamo certo praticare qui!Qui vogliamo praticare il marketing!No, in effetti no. Qui (nel senso lì, nel senso nel libro) vogliamo più che altro parlare di quell'atmosfera pionieristica, ingenua, poetica, platonica che caratterizzava gli albori delle console e home computer. Che il marketing sia un po' una scusa per, al solito, fare poesia in prosa, lo potete evincere già dall'incipit. Intanto il saggio inizia con un'immagine che non c'è:

Cioè, qui c'è, nel saggio non c'è, doveva esserci ma non c'è, quindi il saggio parte descrivendo un'immagine che non c'è come se ci fosse. Tecnicamente questa è poesia, e di matrice leopardiana, anche. Questo l'incipit:

"1971. Una modella scalza, in abito lungo, con uno stile glamour sospeso tra upper class e psichedelia, posa a fianco di un voluminoso cabinato a gettone dalla forma altrettanto poco identificabile, che può ricordare tanto un oggetto di design anni Sessanta quanto un elemento scenografico della plancia di comando Star Trek. Si tratta della brochure pubblicitaria con cui veniva promosso presso i distributori Computer Space, primo videogame a gettoni da sala giochi; probabilmente il primissimo esempio di pubblicità legata a un videogame, che certo denota una confusione in merito al destinatario del messaggio. Ciò è facilmente comprensibile: le scelte gestionali, la start-up, la comunicazione promozionale di un nuovo prodotto non sono quasi mai cosa semplice ma, nel caso del marketing videoludico degli albori, la sfida si era fin da subito rivelata addirittura improba, a causa della natura assolutamente inedita e composita dell’oggetto in questione."

Forte, eh? Bah, insomma. Quel mio solito tono un po' serioso che tradisce una testa piena di nuvole azzurrine uguali nella foggia, ma non nel colore, ai cespugli al suolo. Come ulteriore regalo, allego qui le note al saggio. Sì, solo le note a piè pagina. Quelle che di solito non legge nessuno. Se vi fanno pensare che la parte non esposta, cioè il saggio vero e proprio, possa essere di vostro interesse, allora sapete cosa fare.

1. (Ci concentreremo quasi esclusivamente sul contesto americano, seguendo soprattutto il processo di creazione del mercato delle console domestiche, scenario cruciale per capire la nascita e l’evoluzione del marketing videoludico pionieristico.

2. Bushnell avrebbe poi commentato, facendo autocritica in merito a Computer Space, che “Nessuno è disposto a leggere un'enciclopedia per imparare le regole di un gioco”.

3. Fu inequivocabilmente Bushnell a copiare da Baer, tanto che quest’ultimo, anni dopo, riuscì a intentare e vincere una causa non solo contro Atari, ma contro la maggior parte delle aziende, tanto americane quanto giapponesi, che avevano preso ispirazione dal suo brevetto senza pagare le doverose royalties. Come spesso capita, la causa legale funzionò anche da veicolo promozionale per Baer, che riuscì sul lungo periodo a dare vita a tanti altri progetti e a ottenere
l’appellativo di “vero padre dei videogame”. È lo stesso interessato a raccontarlo (Baer, 2005).

4. Analoga la strategia seguita, nel sensibilmente più piccolo contesto del mercato italiano, dall’azienda Natale Zaccaria e f.lli di Calderara di Reno (BO), ideatrice di flipper e biliardini di tale successo da portarla ad essere, per un breve periodo, addirittura quarta al mondo nel settore dei pinball. Prima di fallire, stritolata dalla troppo dinamica evoluzione del mercato videoludico, nel 1988, Zaccaria riuscì a creare ben 8 coin-op interamente made in Italy, esportati anche
all’estero, ponendo una pietra miliare per lo sviluppo di videogame in Italia grazie a titoli come Money Money, Laser Battle, Jack Rabbit.

5. Interessante notare come Home Pong superasse la già citata console Magnavox Odyssey di Baer più che altro sotto il profilo del marketing: una scadente comunicazione sul packaging dell’Odyssey aveva tratto in inganno molti potenziali acquirenti, facendo credere loro che la console avrebbe potuto funzionare solo su televisori Magnavox. Da qui la cruciale indicazione, sulla confezione di Home Pong, “funziona con qualsiasi tipo di televisore”. Un dettaglio che fa riflettere su come occorresse creare da zero nei consumatori, tramite il lavoro promozionale, la consapevolezza tecnologica verso il nuovo medium.

6. Nel 1984, appena esaurito il tempo previsto dagli accordi di non concorrenza, Bushnell si reinserì nel mondo dei videogame con una piccola società, Sente, che ha altresì rappresentato solo una delle sue vulcaniche iniziative di quegli anni, tra cui spicca la catena di pizzerie “informatizzate” Chuck E. Cheese (di nuovo con il supporto di Landrum).

7. Per quanto possa far oggi sorridere, un selling point importante dei titoli sportivi Intellivision era costituito dal fatto che i calciatori, sciatori e tennisti erano graficamente così definiti da avere braccia e gambe.

8. La sigla “2600” venne associata all’acronimo VCS proprio nel momento in cui debuttarono i nuovi hardware Atari: un tentativo di porre un ordine nella catalogazione, ma anche un rischioso rebranding proprio del prodotto più forte dell’intera rosa.
9. In un secondo, tardivo momento anche l’Atari 5200 si doterà di una simile periferica, ma comunque troppo tardi in un’era che evolveva talmente in fretta da far sembrare i mesi anni.

10. Atari non si era oltretutto cautelata sotto il profilo legale per far sì che gli sviluppatori third party fossero costretti a pagarle delle royalties per il semplice fatto di creare giochi per VCS. Di lì a qualche anno Nintendo, con il suo Entertainment System, avrebbe invece forzato ogni sviluppatore a pagare per avere la licenza di sviluppo – curiosamente, i primi a contravvenire a questa regola saranno proprio gli sviluppatori di Tengen, sussidiaria proprio di Atari.

11. A onor del vero, nemmeno Activision è riuscita a resistere alla convulsa evoluzione dell’industria videoludica, tanto che la società attuale è stata rifondata nel 1992 con nuovi capitali e un organico completamente differente, che ha rilevato il brand portandolo verso direzioni ben diverse, per quanto altrettanto proficue.

12. Diverse fonti (come Mikkelson, 2007) nel corso degli anni, hanno attestato come la storia delle cartucce di E.T. sepolte nel deserto del Nevada sia vera, sebbene sarebbe stata eccellente anche come semplice leggenda metropolitana. Evidentemente, l’Atari di Warner non aveva perso del tutto quella scintilla di follia manifestata nell’epoca Bushnell.

13. La ragione del mancato accordo va cercata nella conversione per Coleco Adam di Donkey Kong: Atari aveva acquistato da Nintendo i diritti per lo sviluppo delle conversioni per home computer, ma Coleco sosteneva di potersi appellare alla sua licenza di Donkey Kong per console, visto che Adam era, a suo modo, una periferica del ColecoVision. Nonostante Nintendo convenisse che Coleco aveva infranto la licenza, Atari non ne volle più sapere di
avere rapporti con la casa giapponese.

(scusate la formattazione ballerina del post. Non c'è stato verso di ottenere le font e le dimensioni che volevo. Blogger, quando si imbizzarrisce, è veramente insopportabile. Sblogghevole, anzichenò.)

2 comments:

Anonymous said...

Astuto B!
S

M said...

Un extra e le sole note... questo sì che è Marketing Babich! Altro che brand awareness!