Un appunto.
Esattamente trentacinque anni fa, il giorno più felice della mia vita. Questo dicono i miei scarni diari del 1987. E in questi termini ho conservato la memoria del 20 settembre 1987. Un'impressione sviluppata in tempo reale e così annotata all'epoca, non una constatazione postuma. Ex post, mi sono limitato a non smentire, nella mia mente, la mia percezione-fattasi-ricordo di quel giorno.
Cos'è successo il 20 settembre 1987? Avevo tredici anni, ero reduce da un'estate che aveva per me rappresentato l'apice delle montagne russe emozionali. Una cotta furibonda, di quelle che ti plasmano e condizionano la vita per sempre. Una ragazzina determinata, che magari inconsciamente già lo sai che non può durare e checcaspita abbiamo io 13 lei 12 anni eccetera. Ma sai anche che, d'ora in poi, in tutte le ragazze cercherai il carattere, l'arguzia, lo humour, e se vogliamo dirla tutta l'assenza di quella sovrastruttura patriarcale interiorizzata.
Quindi. Estate del primo innamoramento violentissimo. C'è tutto quello che mi piaceva, incluso il fatto che lei, a metà estate, mi rivela che con l'inizio dell'anno scolastico avrebbe cambiato scuola, per finire dall'altra parte della città. Potremmo stare a discutere che Trieste è uno sputo e "dall'altra parte della città" è gestibilissimo per un tredicenne, ma io volevo il dramma sepolcrale, l'impossibile in cui crogiolarsi, quindi abbracciai il sordido destino e passai il successivo anno di merda che so. Perché volevo così. Perché l'estasi del martirio fantozziano era il mio credo. Fantozzi romanzo, prego, recuperato a casa di mio zio.
Ma non è questo il punto dell'appunto. Per l'appunto il punto arriva alla fine dell'estate. Quasi l'ultimo giorno di quell'estate. Il penultimo. Era il 20 settembre di un'estate lunga e calda, tanto che eravamo ancora al mare, io, il mio amico Vanni, sua madre e la Ragazza. Che non era la mia ragazza, tutta quell'estate si era infine conclusa in nulla di fatto, nonostante un'evidente simpatia reciproca, una corrispondenza di pudici sensi, ma con lo spettro dell'Eterna Separazione Imminente mica mi metto a fare dichiarazioni o timetticonme eccetera, dai. Un po' di indegnità. Questo senso di les jeux sont faites, tuttavia, ebbe in quel 20 settembre un risvolto a me ancora ignoto fino a quel punto nell'esistenza.
Era domenica, il giorno dopo la scuola sarebbe incominciata, eppure lo stabilimento balneare Riviera era semideserto, essendo che eravamo il 20 settembre, essendo che la gente era entrata in quella brutta roba che oggi si chiama mindset e che insomma non si va mica al mare il 20 settembre. E dire che era una giornata dalla temperatura perfetta. L'acqua era fresca, ma creava una combo armonica con la temperatura dell'aria. Giocando poi in acqua. Un po' tutti assieme, io, Vanni, la madre di Vanni e la Ragazza e una palla. Un po' io, Vanni e la Ragazza. Un po' io e la Ragazza. Che lungo tutta quell'estate era stata manesca, come capita di essere a quell'età con chi ti piace, o anche con chi vuoi bullizzare, con tutte le sfumature intriganti nel mezzo. Ma quel 20 settembre la Ragazza non era manesca. Nella misura dei suoi gesti c'era un affetto che nessuna persona mi aveva dato fino a quel punto. La mamma il papà i cugini gli amici tutti: altro affetto. No, altro, altro, inedito, fresco, pacificante, eppure anche elettrico, eccitante, infervorente. Immagina: essere abbracciati in acqua da una ragazza, mentre stai giocando tra gli spruzzi e le tue risa, ed è un abbraccio non goffo, non rubato, non forzato, semplicemente una manifestazione diretta e onesta di quello che provi, una celebrazione fisica, e chimica, di un qualcosa nemmeno mai nato, né allora né mai, che scoppia prima che qualsiasi pensiero un po' coperto lo possa fermare. Insieme a te sto bene, qui e ora. E pazienza se domani altra scuola, altra stagione, altra vita, Bolfo.
(Bolfo: il nome che avevo scelto per il mio alter ego fumettistico. Come il collare antipulci della Bayer. Tanto - pensai - quanto mai potrà durare un marchio di collari antipulci. Potrò diventare grande, avere successo con il mio fumetto "Bolfo" e nessuno si ricorderà dei collari. Che ovviamente sono ancora un brand di enorme successo della Bayer, perché big pharma vs fumetti amateur sempre 1:0.)
Bolfo, da par suo, quel giorno dismise la maschera fantozziana. E anche il collare antipulci. Solo quel giorno, davvero. Del tutto. Anche essere "sfigati" è un mindset. O solo un alibi. Una recita per non livellare la propria intelligenza emotiva. "Io cercavo un alibi/per restare nell'infanzia/e ci stavo anche riuscendo/ma ho incontrato te" recita una delle mie canzoni teen age amateur per la Ragazza.
Così quel 20 settembre lo passammo io a essere me, lei a essere lei. Nemmeno con quella esclusività morbosa che a volte hanno i giovini piccioncini, grazie al curioso assemblamento della cumpa io - lei - l'amico - la madre dell'amico. Fu un melange cruciale a tenere tutto in equilibrio. Ed è questo, infatti.
Equilibrio. Misura. Temperanza.
Fu la prima giornata della mia vita in cui le emozioni vissero in un equilibrio perfetto. In cui i tumulti cangianti delle emozioni si acquietarono dall'alba al tramonto. Forse perché, nei mesi precedenti, troppi erano stati i clamori. E perché, nei mesi successivi, troppi sarebbero stati i dolori. Recite formative, scimmiottamenti propedeutici per temprare il carattere con microtraumi. Ma quel giorno lì, nell'occhio del ciclone dove si sfidano le perturbazioni del passato e del futuro, regnò la calma più sorprendente.
La sorpresa - ma lo realizzo probabilmente ripensandoci qui-e-ora, trentacinque anni dopo - fu che la pace non è qualcosa di asettico, di noioso, di immobile, di solitario. Può essere fluida, può coinvolgere più persone, può superare le correnti gravitazionali degli sbalzi d'umore per più di cinque minuti. La pace deve essere empatica. Deve celebrare il discioglimento di te nel tutto, e questo tutto comprende i tuoi brothers and sisters. E sì, forse per arrivarci, a meno che di non essere davvero assai guru, devi pigliarti mazzate emotive adolescenziali per tutta l'estate prima. E poi stare lì a scuola a disegnare instant fumetti che celebrano la tua vita. La parte goffa e fantozziana, s'intende: non mi sarei mai azzardato a disegnare quel giorno lì, quello più felice della mia vita, il 20 settembre 1987. Però ora ci ho scritto sopra questo appunto, un po' stupefatto che nella vita possano passare tipo trentacinque anni da un determinato evento di cui serbo ricordi-cinque-sensi così vividi.
Guardammo il sole tramontare sul mare, in silenzio, tutti e quattro, dal pontile in fondo al bagno Riviera. Un ultimo tuffo, nell'acqua che aveva ormai assunto più il livido colore della sabbia del fondale, che non quello del cielo - non più - azzurro. Come una visione di quel "mare nero" cantato in altri tempi, in altri lidi.
Sulla sua Talbot Samba Bahia, la mamma di Vanni ci riportò in Gretta, il rione dove, per poco, ancora tutti e quattro risiedevamo. Ancora, in silenzio. Ora che il sole era tramontato, ora che il mare era nero, anche la quiete e il silenzio si stavano intorbidendo. La felicità non dura che un momento, di solito - oh, era durata tutto il giorno, e nella sua forma più radiosa. Deve pur calare il tempo su tutto questo.
Non ricordo infatti nulla della fine del viaggio. Dei commiati. Come salutai la Ragazza? La salutai? Feci qualche torsione fantozziana per scacciare con vigore quell'allure apollinea, insostenibile oltre? Non lo so.
Nei trentacinque anni seguenti, però, "confesso che ho vissuto". E mi sono fatto un'idea, di come chiamare con onestà quel 20 settembre. Non "il giorno più felice della mia vita" ma "il primo giorno più felice della mia vita". Quello che mi ha fatto capire come funziona veramente. Di cosa è capace, al meglio delle proprie possibilità, l'essere umano.