Tuesday 18 May 2010

Un anno fa,
in giro per Tokyo, in cerca di [?]

"What a drag it is getting old".

Questi tre-post-in-uno mi sono stati originariamente commissionati dal sito GamesVillage.it, dove sono stati pubblicati tra il giugno e luglio del 2009, dopo che ero tornato dal mio secondo viaggio a Tokyo. Sono scritti di getto e si vede, ma tutto sommato restituiscono al lettore con onestà lo stato febbrile, maniacale in cui mi trovavo al ritorno dal Giappone.
In preda a una notevole saudade che mi fa anelare soli levanti ripropongo qui, appena appena editato, lo sproloquio in questione, tutto incentrato sulla ricerca di un MacGuffin videoludico che rappresenta probabilmente la ricerca di se stessi. Come tutto, come sempre.

1. Cercando Meteor


Soggettiva.

Il Giappone visto dall'Occidente è prigioniero degli stereotipi di seconda generazione.
La prima generazione era quella classica del dopoguerra: dopo un paio di bombe atomiche e un po' di senso di colpa, i media occidentali scoprono questa curiosa isoletta piena di samurai e geisha e industrializzazione e poi anime e manga e poi videogiochi e poi studentesse che vendono mutandine usate.
Poi, a un certo punto, si è sentito il bisogno, tra gli occidentali che hanno sviluppato un amore appassionato nei confronti del Sol Levante, di sfatare una serie di luoghi comuni che si erano andati fossilizzando. Si è così creata la seconda generazione di stereotipi: in realtà il sushi in Giappone si mangia pochissimo, i giapponesi non sono nazionalisti, odiano effettivamente gli americani ma amano tutti gli altri, amano soprattutto l’Italia e capiscono più facilmente il francese e l’italiano che non l’inglese.

Gaijin.

Non sono qui per inventarmi una terza generazione di stereotipi. Casomai sono qui per testimoniare come non sia possibile cogliere il Giappone sotto nessun cliché, perché tutto cambia in maniera talmente rutilante che la ricerca di costanti è un esercizio sterile, tipicamente occidentale, tipicamente da gaijin. Probabilmente, l’unico modo per surfare liberi nella cultura giapponese è quello di cercare l’approccio più spirituale, più zen. E, in un gioco di scatole giapponesi, riflettere sul perché la filosofia zen abbia attecchito tanto bene in quest’arcipelago, ripercorrendo la sua storia (il suo balzo prodigioso, e tutt’altro che pacifico, dall’era feudale all’epoca moderna) e le sue condizioni orografiche e geografiche (i terremoti che per secoli hanno cancellato di continuo ogni ambizione architettonica dell’uomo).
L’occidentale che va in Giappone, piuttosto, lui sì che è una macchietta. Non esistono mezze misure: o si incarna nello stereotipo del gaijin, dello straniero sgradevole e quindi sgradito, o segue lo stereotipo del turista rispettoso, che conosce la cultura nipponica, che la ossequia e che vorrebbe quasi trasfigurarsi, avere la faccia di un giapponese per non essere per forza “beccato” come straniero tra la folla. Un po’ come quando Nino Ferrer cantava “Vorrei la pelle nera”, da molti considerato eccellente esempio di razzismo all’incontrario.

Akihabara non c'èntra con questa storia.

Ma questo cosa c’entra, avrete probabilmente detto già cento, centocinquanta secondi fa. Non vi biasimo affatto. Be’, il fatto è che furono considerazioni di questa risma, nel bel mezzo dell’ennesima notte in jet-lag a passeggiare per le strade sorprendentemente silenziose e serene della capitale nipponica, a portarmi a decidere di avventurarmi alla ricerca di un negozietto di retrogaming di cui avevo solo marginalmente letto su Internet. Pare che ogni anno questo negozietto coinvolga tutta una serie di artisti, invitandoli a creare una collezione di cartucce del Famicom che non esistono. Non le scatole: solo le cartucce, cogliendo uno dei miei aspetti preferiti di quella console: la giocosa fisicità della cartucce in sé, grosse, colorate, con l’etichetta adesiva davanti e dietro.

E nemmeno SuperPotato, il più celebre negozio di retrogames di Akiba,
che viene solo citato più avanti.

Molti siti, tra cui il sempre ottimo Kotaku.com, avevano riportato notizia e link al sito del negozio. A guardare su Internet, in effetti, dava l’impressione di essere una cosa piuttosto importante. Ma in effetti se adesso faccio un sito dal look estremamente professionale in cui vi parlo di Charlie, il mio pastore tedesco degli anni Settanta, probabilmente anche a voi Charlie sembra un cane molto più importante di quanto non fosse nell’economia del Tutto (per me è il cane più importante del mondo, s’intenda).

In italiano si traduce "Il sudore dei porcari".

Camminavo nella periferia di Tokyo, distantissimo dal centro di Tokyo, eppure probabilmente, su vasta scala, ben più vicino al centro di Tokyo che non alla sua periferia più estrema, che probabilmente finisce in mare in qualsiasi direzione, anche verso ovest. Tokyo non finisce mai. Mi ero perso. Mi ero stupidamente perso, perché volevo fare di testa mia, volevo andare ad intuito, più che procedere, incedere un po’ casualmente. Chiedere ai passanti. Ero sceso alla fermata del metrò di Kichijoji, cioè quella giusta, e da lì dovevo cavarmela da solo. Quella era la regola del gioco che mi ero creato: trovare, con calma zen (e con una mappa piuttosto approssimativa scaricata da Internet) questo fantomatico Meteor. Ma a un certo punto ecco che succede qualcosa di magico. Intuisco che, in effetti, io sto solo fingendo di incedere con attitudine zen. No: io sto solo cercando male un posto imboscatissimo. Le spalle sono quelle del turista contrito che non sa come chiedere informazioni. E allora smetto di cercare. È presto, e laggiù vedo tanti tanti alberi. Andiamo là.


2. Trovando Meteor



Ordine. Armonia.

“Là” è un parco. Col laghetto, i cigni, i bambini che giocano e diamine, i bambini che giocano sì che sono gli stessi in tutto il mondo, al di là di ogni qualsiasi possibile stereotipo. Mi spingo attraverso il parco pubblico di Kichijoji. Oltre il lago vedo un tempietto shintoista.

Mai sentita "La folle corsa" di Mogol e Battisti?

Lo raggiungo, ormai effettivamente disorientato, ma allo stesso tempo sempre più sereno. Prego, guardando il rituale di quelli prima di me (perché dovendo scegliere quale stereotipo di turista incarnare, è comunque meglio appartenere a quelli rispettosi).

Un anno dopo, realizzo che era un tempio shintoista e non buddhista. Bestia.

E vado ancora oltre, sempre più lontano. Ma lontano da cosa? Mi accendo una sigaretta. Alzo gli occhi dopo aver rimesso nella tasca l’accendino e mi rendo conto di essere davanti a un cartello con il faccione di Totoro: “Ghibli Museum, Mitaka – 300m”.

Trovarlo per caso è stato epifanico.

Ora, io non è che pretenda di vedere miracoli dove non ci sono, ma perbacco, Tokyo è grandina. Arrivare davanti al museo dello studio Ghibli, quello del mio kami, Hayao Miyazaki, per caso, è piuttosto incredibile, a mio avviso. In pratica, a furia di allontanarmi dalla stazione del metrò di Kichijoji, sono arrivato in un altro quartiere, Mitaka, appunto. Fa ridere, per chi ricorda “Maison Ikkoku”, che ‘sto posto sia effettivamente pieno di campi da tennis con maestri aitanti.

Tottoroo tottòròooo/ Tottoroo tottòròooo!

Ma lo zen è zen: non è che funziona come le favolette con l’happy ending. Per cui, tutto galvanizzato di essere finito per caso al Ghibli Museum, e ormai sicuro che potrò accedervi, resto di sale quando scopro che il museo è chiuso per ristrutturazione da pochi giorni prima a pochi iorni dopo. Il caso è fortunato è sfortunato…

Ghibli, voi potete farmi qualsiasi cosa, anche questo.
Ma anche prendermi a calci, vi amerò lo stesso, sempre, comunque.

Ma è sempre l’arrendevole cedevolezza zen, quella che si impone di rigore. Nel gioco a dadi del destino, può darsi che questo bizzarro evento sia foriero di altre sorprendenti chimiche esistenziali. E così infatti è, perché riavvicinandomi a Kichijoji lungo un altro sentiero, arrivo davanti alla palazzina che, secondo me, dovrebbe contenere il misterioso negozio di retrogaming Meteor. C’ero passato anche due ore fa, ma non ero pronto a vederlo. Certo, questa è una nozione che dovrebbe essere accolta serenamente dai fan di “Video Girl Ai”. Be’, ora sono pronto a vederlo, Meteor. Certo, non perché si è nel frattempo materializzata una porta nel muro del condominio. Ma, chiedendo a un ragazzo che sta uscendo se per caso Meteor sia da quelle parti, egli risponde che sì, è là. E mi guarda a lungo, come a dire: “e tu perché diavolo cerchi Meteor? Sei pazzo? Un gaijin che cerca Meteor? Bah!” Ma non lo dice, e corre via. Meteor, di fatto, è un appartamento al primo piano. È normalissimo che i negozi siano al primo (e terzo e quarto eccetera) piano, in Giappone, ma di solito c’è qualche indizio all’esterno, ecco. Meteor no, manco un citofono, figuriamoci un’insegna. Ma quando arrivo sul pianerottolo, be’, l’insegna c’è, ed è estremamente sciccosa: una Monna Lisa in pixel-art.

Toc Toc.

La porta è socchiusa. Entro. Non c’è nessuno, come quella favola di cui non ricordo il nome in cui la bambina entra nella casa dei tre orsi, ma i tre orsi non ci sono. Memore della fine che fa la bambina, cerco di non agire troppo, restando piuttosto immobile a osservare, stupito, lo scenario piccolo e intenso che si para davanti ai miei occhi. Meteor è un negozio in un appartamento, ma è anche un appartamento in uno spazio vitale davvero ristretto. Eppure, l’ordine con cui tutto è disposto non trasmette un senso di claustrofobia, anzi. Se proprio devo stereotipizzare i giapponesi, scelgo di lodare la capacità di disporre qualsiasi cosa in qualsiasi contesto con un’armonia e un’eleganza impareggiabili nel resto del mondo da me visitato. L’atmosfera, in effetti, è quella di una galleria d’arte bonsai, più che quella di un negozio à la SuperPotato.
(tra parentesi: il correttore ortografico di Word mi sostituisce SuperPotato con “superdotato”, che tutto sommato fa sorridere).

I colori. I colori!

Un’intera parete è dedicata alle cartucce, esposte con rigore cartesiano. Gli oggetti in vendita sono pochi, se escludiamo una vagonata di vetuste cartucce Famicom. Ci sono magliette, ma di quelle belle. Ci sono gadget, ma di quelli superfichi. Ci sono libri, di quelli introvabili. Ci sono CD con colonne sonore di videogame. Fa un po’ ridere che gran parte delle selezioni sono europee: Meteor ha oggetti d’importazione dall’Europa che per un giapponese devono essere a dir poco sconcertanti, ma che, in effetti, qui da noi sono relativamente reperibili, per lo meno grazie all'Internet. Ma non è per queste cose che sono qui. Mi volto, mi appropinquo al bancale delle cartucce Famicom, e affondo le mani, proprio mentre la porta si apre e entra un ragazzo barbuto, più che stupito di trovare un occidentale nel suo negozio.


3. Il linguaggio dei gesti

Cucù! Chi è? Angela Merkel? Ma no, è Ken. Ken è il proprietario del negozio in cui mi trovo. Ken ha circa ventotto anni. Si chiama Ken come Kenshiro, non come Ken di Barbie. Ken deve aver appena fumato una sigaretta. Ha ancora il fantasma della sigaretta in bocca (immaginatevelo come un fantasma di Pac-Man mangiato da Pac-Man) e soprattutto ha ancora addosso l’inconfondibile odore delle Seven Stars, le sigarette che, in dose massiccia, mi hanno portato a smettere definitivamente di fumare per ora. Delle sigarette mediocri, molto filtrate da un potente filtro in carbonio, che ho eletto a mie sigarette preferite nonostante facciano abbastanza schifo solo perché sono incensate da Haruki Murakami nei suoi libri. Ken assomiglia a un giovane Murakami, o forse no, è anche vero che ho fumato una stecca di Seven Stars anche se mi facevano abbastanza schifo., la mia attendibilità dovrebbe risultarvi nulla, a questo punto.

Eccole lassù.

Ken mi guarda con un misto di “ehi, un alieno nel mio negozio” e “congratulazioni per essere arrivato fin qui, ma la nostra principessa è in un altro castello”. Ken non vuole dare troppa importanza alla mia presenza, va dietro il mini-bancone che divide l’angusto spazio a metà e fa sì che l’appartamento assuma una forma di negozio. Ken vince subito mettendo un vinile (quei cosi tondi venuti prima dei CD) di musica jazz-lounge-funk-vintage che sembra fatta apposta per piacermi. Non mette su la colonna sonora di Super Metroid, no – mette qualcosa di funzionalmente analogo, mette su amore per la Tradizione del Bello. Come il retrogaming di qualità. A primo acchito sembrerebbe proprio un disco dei Black Merda (seriamente, sono di Detroit e si chiamano Black Merda, mica è colpa mia. Subito Wiki inglese, presto!) ma non indago, non so il giapponese, non so cosa sappia lui. Apprenderò in seguito che Ken è sordomuto, oppure è un mimo, non so, ma la nostra “conversazione” avviene interamente senza l’uso di parole. Sguardi. Sorrisi. Gesti. Cercate di usare l’immaginazione e prefiguratevi la scena: -Gli porto al bancone la cartuccia di Esper Boukentai per Famicom. - Mi fa un gesto che significa “lo sai che non funziona sul tuo Nintendo del tuo paese in occidentelandia?” Ma mentre sta finendo di mimare il concetto fa un altro gesto che significa “Oh be’, che sciocco, se sei arrivato fin qui e sei interessato in Esper Boukentai sei un illuminato, un idiot savant, un fool shakespeariano, lo sai già”. Gli porgo anche Hyper Sports. E qui invece mima con certosina pazienza il gesto che significa “Eh, sarai anche savant ma sei pur sempre anche idiot… lo saaai vero che serve un controller speciale per giocarci, a prescindere da che console hai?” Io mi produco in un’espressione che cerca di contenere il concetto “maddai, e io pensavo che solo Hyper Olympics giappo avesse bisogno di una simile costosissima carabattola! E vabbe’, dai , lo prendo lo stesso e lo regalo al mio amico Mattia Ravanelli, che altresì mi ha regalato il vinile “With the Beatles” dei Beatles dunque devo contraccambiare!” Sì, tutto questo con un’espressione.


Lo riconoscete? Nemmeno io.

Ken scavalca con sicurezza il bancone, mi strappa dalle mani la cartuccia e la infila in un Famicom. Non va. Vorrei spiegargli che pazienza, è per Mattia Ravanelli, ma lui insiste.

Gli mimo il gesto “prova a soffiare nella cartuccia”. Finalmente sorride. Un bel sorriso, di rispetto e complicità, quello di due uomini che si sono capiti, che trascendono lo spazio e il tempo e la cultura, che hanno il vocabolario comune della passione retroludica. Soffiare nella cartuccia. O lo capisci o non lo capisci. Lo capisci? Sorriso. Manca solo l’amaro Montenegro. O anche un saké, un cordiale, uno stravecchio, un barolo chinato, ma c’è poco da scherzare. Dopo ore nel mondo fatato, fuori dal tempo di Meteor, è tempo di andarsene. Un aereo mi aspetta per tornare in Italia. Anzi, non mi aspetta, per quello è tempo di andarsene. Se mi aspettava, perché andarsene? Sarei rimasto là ancora per giorni, a godermi la musica, a comprare e provare cartucce.

Il fatto che la cartuccia di Tetris appaia anche in questa foto
può facilmente farvi ricostruire l'esile estensione del negozietto.


Vi vedo, laggiù, a mimare il gesto “Babich, ma non dovevi parlarci dell’esposizione di cartucce inventate che è il vanto di Meteor?” Eh, già, dovevo, ma che volete, il tempo cambia molte cose nella vita, il senso le amicizie, le opinioni, che voglia di cambiare che c’è in me, e così ho venduto l’esclusiva del pezzo sulle cartucce inventate alla Rivista Ufficiale Nintendo. Da un uomo che ha smesso di fumare cosa vi aspettavate?

Be', tanto è tutto spiegato a chiari ideogrammi qua: http://www.super-meteor.com/

Ma soprattutto qua, in maniera più grafica: http://famicase.com/chronicle/

Dopo aver soffiato, comunque, la cartuccia, ça va sans dire, funzionava. E anch'io mi sentivo più leggero, non solo in termini di conto in banca, ma anche perché avevo esorcizzato, forse per sempre, una parte dell'inquietante feticismo verso nemmeno la mia infanzia, ma un'infanzia parallela, quella dei giapponesi degli anni Ottanta. Una delle possibili esistenze passate, così vicina e così lontana dai miei trascorsi, così sorprendentemente simile in quanto ad archetipi.

Presi la metro e tornai indietro, in ogni senso, sciogliendomi in un sonno profondo, manco fossi sulla linea verde a Milano.

Z.


5 comments:

Anonymous said...

Mi hai fatto venire voglia di andare in giappone a fare il gaijin rispettoso!

Anonymous said...

B. ma in Giappone ti metti i completi beige, le scarpette nere e giri con la borsetta? Meglio quando stai in Italia.

Anonymous said...

Ero S.
Ero-ina.

Caterina said...

Bravo Babicaaahnnn!
La cosa più bella quando di va all'estero è quella di perdersi, personalmente parlando. xD

A me è successo quando sono stata San Pietroburgo e non sò perchè, ma stare lontana dal gruppo -nonostante fossi in una situazione "problematica" se vista da occhi esterni- mi dava una sensazione di sollievo. Sapevo che potevo fare quel cavolo che volevo, senza nessuno che mi dicesse dove andar, cosa fare, cosa vedere...
Ho chiesto informazioni in giro su dove stavo e nessuno sapeva parlare inglese... ma un po' di russo e un po' di gesti sono srviti tanto! XD
Senza contare poi i russi: i clichè dicono che son persone fredde e solitarie, ma quando ho chiesto informazioni mi avevano praticamente circondata e sembrava facessero a gara per aiutarmi (la conseuenza fu che, in un primo momento, non capivo un cavolo perchè mi parlavano in mille)!! Mi ricordo anche di una babushka (nonnina) che a malapena camminava, ma voleva accompagnarmi un po' in giro. Xp

Immagino che il Giappone per te è stato un'esperienza bellissima! Io ho incontrato dei giappionesi quando andai in Australia alcuni anni fa e siamo ancora in contatto. Stiamo pianificando di fare uno "scambio culturale"! XD
Loro verranno qui da me e poi andremo insieme in Giappone! =) Non vedo l'ora... *_*

Rugerfred said...

Ma è commuovente questo post1
Fantastico! Esotico! Carico di anima!
Grandissimo!